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Frammenti dal passato e personaggi illustri

FRAMMENTI DEL PASSATO
Usi e costumi del nostro paese

     Ogni paese tramanda, di generazione in generazione, quegli atti, gesti, riti, consuetudini ed usi che si ripetono, ciclicamente, in determinati giorni dell’anno o in particolari occasioni socialmente importanti e che, pertanto, si sono consolidati al punto tale da acquisire riconoscimento formale: entrano,cioè, a far parte della “tradizione”, attraverso la quale il passato continua a rivivere nel presente.
     Molte di queste consuetudini, purtroppo, sono quasi del tutto scomparse; altre sono sempre più spesso “ripescate” per motivi turistici o folcloristici, ma hanno perso quel carattere di sacralità che avevano un tempo.
Ne citiamo, qui, alcune.

Le ricorrenze

     Alla vigilia dell’Epifania, ci si radunava intorno al focolare e si gettava, sulla brace, una foglia d’ulivo dicendo:
Pasqua Bfania che vié na vota gliannu
famm’ sapé se (si pronunziava il nome di una persona)
campa o more rend’a chist’annu
La foglia che scoppiettava, resistendo al fuoco, era di buon auspicio, e la persona nominata non sarebbe morta nel corso dell’anno;  la foglia che bruciava facilmente, invece, era di cattivo auspicio.
     Nel giorno di S. Anduonu (S. Antonio Abate), protettore degli animali, il 17 gennaio, si benedivano gli animali che, per l’occasione, venivano addobbati con nastri e fiori di carta. All’imbrunire si accendevano anche dei fuochi per le vie del paese.
     Il 2 febbraio, giorno della Cannlora (Candelora), si portano a casa le candele benedette in chiesa: secondo la tradizione, accese e poste sul davanzale di una finestra, hanno il potere di allontanare i fulmini durante i temporali.
     In occasione della festa di S. Biagio, il 3 febbraio, al termine della cerimonia religiosa, i fedeli si recano davanti all’altare dove il sacerdote, con una candela benedetta, fa loro un segno di croce sulla gola, perché il Santo, protettore del mal do gola, li liberi da ogni male.
     Il 7 marzo si era soliti osservare il digiuno del truonu (tuono), perché, in un passato molto remoto, si verificò in paese un tremendo temporale con tuoni e fulmini: in segno di ringraziamento per lo scampato pericolo, non si osava prendere cibo in quel giorno.
     Il Carnevale si conclude ancora con una ridicola processione che simula il funerale di un pupazzo di paglia e stracci, portato su un carretto o a spalla per le vie del paese, mentre un lungo corteo di persone simula pianti e lamenti. A mezzanotte gli si dà fuoco, mentre tutti gridano, a squarciagola:

Carnvalu, pcché si muortu?
La ‘nzalata steva agl’uort,
glui prusuttu steva appisu…
Carnval, puozz’ess’ accisu!

     Il Mercoledì delle Ceneri si appendeva, fuori da una finestra  o dalla porta di casa, una bambola di pezza chiamata “Caraes’ma” (Quaresima), vestita di nero, colore del lutto, per la morte di suo marito, Carnevale. Era legata ad un bastoncino di legno, alla base del quale veniva conficcata una patata decorata con sei penne nere (una per ogni domenica di Quaresima) e, al centro, una penna bianca (che rappresentava la Domenica di Pasqua). S potevano aggiungere,  infilati con un po’ di spago, una crosta di pane, noci, dei fichi secchi, un pezzetto di baccalà e una bottiglietta contenente del vino annacquato: rappresentavano il poco cibo che era concesso prendere in tempo di digiuno e astinenza. Un’antica filastrocca, infatti, recitava:

“Caraes’ma secca, secca
magna nuci e ficu secch’,
cu’ ‘na scella r’ baccalà
Caraes’ma vo’ scialà”.

     Ogni domenica si toglieva una penna nera finché, il giorno di Pasqua, rimaneva solo la penna bianca.
Ancora oggi, in qualche contrada, si rispetta quest’antica tradizione.
     Durante la Quaresima, le donne seminano grano o lenticchie in alcuni vasetti, tenuti al buio: le piantine che ne nasceranno avranno un colore bianco o giallognolo e serviranno per ornare il Sepolcro del Giovedì Santo.
     La Domenica delle Palme si conficcavano, nei campi, ramoscelli d’ulivo benedetto, onde propiziare il raccolto. Un ramoscello d’ulivo si offre ancora alle persone, soprattutto se vi è stato uno screzio, per segnare la fine dei dissapori.
     Nel corso delle funzioni religiose del Giovedì Santo, inizio del triduo pasquale, si legano le campane e, al loro posto, si suonano le raganelle o le tròciule, rudimentali strumenti di legno che, impugnati per il manico e agitati velocemente (o spinti, quelli con le ruote),  provocano un rumore assordante. I ragazzi li usano per annunciare mezzogiorno e l’inizio delle funzioni religiose.                 Quando le campane si sciolgono, segno della Resurrezione di Cristo, si può interrompere l’astinenza e si possono mangiare i cibi tradizionali preparati per la Pasqua poiché “la serpe”  che vi si annida (così si dice, per tenere lontani i più golosi) è fuggita spaventata dal suono delle campane!
     Il 6 maggio, di buon mattino, per una strada di campagna, un folto gruppo di pellegrini si reca ad Ailano per i festeggiamenti in onore di S. Giovanni.
     Gli ailanesi ricambiano la visita venendo in pellegrinaggio in occasione della festa di S. Maria di Prata che si celebra, solennemente, il Lunedì di Pentecoste.
A mezzanotte del primo venerdì di giugno, invece, i pellegrini, ricevuta la benedizione nella chiesa parrocchiale di S. Pancrazio, affrontano un lungo e faticoso viaggio “attraverso sette montagne” per recarsi a Roccamandolfi (IS) a pregare sulla tomba di S. Liberato. Ritornano nella mattinata della domenica successiva ed entrano in chiesa cantando e percorrendo la navata in ginocchio, in segno di devozione e ringraziamento.
 Nella seconda domenica di giugno, la statua di S. Maria di Prata è portata in processione nella chiesa parrocchiale di S. Pancrazio, per far ritorno, nella sua sede abituale, la chiesa di S. Maria delle Grazie al Borgo, nel pomeriggio della domenica successiva al 15 agosto.
Un tempo, essendo la stagione della mietitura, le donne offrivano dei covoni addobbati con nastri e fiori di campo: il ricavato dalla vendita del grano si conservava per la successiva ricorrenza della festa del lunedì di Pentecoste.
     La festa di S. Antonio si celebra ancora oggi, a Prata, il 13 agosto, al fine di consentire la partecipazione anche ai numerosi emigranti che facevano ritorno al paese natìo per le ferie.
Al termine della processione, aveva luogo la corsa dei cavalli e delle giumente, che percorreva alcune strade del paese e terminava nello spiazzale antistante il Convento, dove si benedivano i cavalieri e i cavalli, ornati con fiori, nastri e campanelli. L’usanza era, probabilmente, una reminiscenza di antiche gare equestri medievali svolte, un tempo, a Prata, capoluogo della Baronia.
    Durante le processioni, le persone che hanno “fatto voto”, o  hanno ricevuto qualche grazia,  seguono da vicino, scalze, la statua del Santo. Di tanto in tanto, il corteo si ferma per consentire ai fedeli di fare le loro offerte, affiggendo le banconote, con uno spillo, su appositi stendardi con l’effigie del Santo.
     Molto suggestiva la processione del Venerdì Santo, notturna e illuminata solo dalle fiaccole, durante la quale, fino a qualche anno fa, gli uomini si dividevano dalle donne: gli uni seguivano la statua di Gesù Morto,   le altre seguivano la statua dell’Addolorata, cantando struggenti e antiche canzoni.
     Caratteristica la processione del Corpus Domini: le strade lungo le quali si snoda il corteo sono addobbate a festa e cosparse di fiori; ai balconi sono esposti i ricami e le coperte più belle; in vari punti sorgono degli “altarini” davanti ai quali avviene l’elevazione del SS. Sacramento tra lanci di foglie e fiori profumati , la cosiddetta fiuriàta.
Nella notte tra l' 1 e il 2 novembre, Commemorazione dei Defunti, si lasciano dei ceri accesi, per tutta la notte, sul davanzale delle finestre o dei balconi e, nel passato, si lasciavano anche dei piatti con del cibo: le piccole fiammelle, segno dell’affetto che unisce ognuno ai propri cari, hanno il compito di rischiarare il cammino dei Defunti che, in quella notte, attraversano le vie del paese.
     L’atmosfera natalizia comincia a farsi sentire fin dai primi di dicembre, quando frotte di ragazzi, bussando di porta in porta, chiedono:
“dui lena agliu Bambinu”
e, con la legna raccolta, preparano un grande falò in piazza S. Pancrazio e uno in piazza S. Giovanni, al borgo medievale, ai quali si dà fuoco all’imbrunire della Vigilia, dopo la benedizione impartita dal sacerdote.
     Al termine della Messa di Mezzanotte, tutti si riuniscono intorno al falò, per scaldarsi e scambiarsi gli auguri, un rito che si ripete da tempo immemorabile, che infonde, in grandi e piccini, un’immensa gioia per la festa più bella dell’anno e che vuole essere di buon auspicio per il nuovo anno, ormai imminente: un tempo, il fuoco di Natale rimaneva acceso, di notte e di giorno, fino all’Epifania.
Anche nelle case si metteva a bruciare il ceppo più grosso, ben secco, conservato per l’occasione, che doveva durare fino al giorno successivo.
     Nella notte di S. Silvestro, gruppi di persone percorrono le strade del paese, fino al mattino, e sostano davanti all’uscio delle case intonando in coro, a gran voce, Gliu sciusciu”, un canto tipico pratese, accompagnati dal suono dell’organetto: invitano i padroni di casa ad offrire loro qualcosa, in genere vino, olio, frutta secca, dolci fatti in casa, in cambio di tante benedizioni e auguri di prosperità per il nuovo anno.

Il ciclo della vita
    Le nozze.  Pochi giorni prima del matrimonio, le amiche e le parenti della sposa trasportavano il  corredo nella casa dove gli sposi sarebbero andati ad abitare: ogni pezzo era portato in  una cesta di vimini, sulla testa, perché tutti potessero ammirarlo.
Nella notte che precedeva le nozze, lo sposo e i suoi amici si recavano presso l’abitazione della sposa per portare la serenata.
Foto d’epoca: l’uscita del SS. Sacramento dalla chiesa di S. Pancrazio
 
     Il giorno delle nozze, celebrate quasi sempre nella mattinata di domenica, i compari d’anello si recavano a casa dello sposo per partecipare ad un rinfresco, insieme agli invitati, prima di  dirigersi verso la casa della sposa e, poi, in chiesa:  in prima fila, nel corteo,  c’erano la sposa e il compare, seguiti dallo sposo e la comare.  Il percorso era interrotto dalla cerimonia del “parapasso”: una sedia di legno, coperta da un drappo bianco, era posta al centro della strada, in modo da ostacolare il passaggio. Sulla sedia era posto un vassoio, la uantiera, con dei fior
d’arancio che venivano offerti alla sposa, mentre lo sposo e gli invitati deponevano confetti e monete. 
      In chiesa, la sposa stendeva un lembo del velo verso lo sposo, sul quale egli poggiava il suo ginocchio: secondo la tradizione, questo gesto avrebbe assicurato un rapporto coniugale duraturo e fedele.
     All’uscita, quale auspicio di fecondità, felicità, benessere e prosperità, agli sposi si lanciano confetti, monete e riso.
     Il corteo  si dirigeva, quindi, verso la nuova abitazione: sull’uscio li attendeva la madre dello sposo la quale dava il benvenuto alla nuora, che s’inginocchiava, e le chiedeva:
Sposa mia nuvella,
si v’nuta cu la paci o cu la uèrra?
La sposa, di rimando, rispondeva, naturalmente:
Cu la paci!
Quindi, la suocera, con un ramoscello d’ulivo, simbolo di pace, la spruzzava con dell’acqua benedetta dicendo:
Tu si ben’accetta rendu alla famiglia!
 Seguivano abbracci, baci, qualche lacrima e un dono in oro, in genere una collana, un bracciale e degli orecchini.
     Il ricevimento si svolgeva in casa o sull’aia, nella bella stagione, e i festeggiamenti si protraevano fino a tarda sera, con canti e balli. La domenica successiva, gli sposi si recavano in chiesa, insieme ai compari d’anello, per  partecipare alla santa messa.

La nascita.  Fino a pochi decenni fa, i bambini nascevano in casa, con l’assistenza della “mammana”, l’ostetrica del paese, aiutata da donne esperte.
     Il neonato si vestiva con delle fasce che lasciavano libera solo la testa e si deponeva in una connola (la culla) di legno. Quale auspicio di abbondanza, al neonato si facevano stringere delle monete e oggetti d’oro e, sul vestitino, si appendeva un  amuleto, gliu curnicchiu, per preservarlo dal malocchio.
     I bambini non potevano uscire di casa prima del battezzo, cerimonia che si celebrava, e si celebra ancora oggi, al più presto dal momento che, secondo la religione cattolica, le anime dei non battezzati finiscono nel Limbo. In caso di morte, il bambino è vestito di bianco e il corteo funebre è accompagnato da una pioggia di confetti.

La morte. Secondo un’antica tradizione, ai familiari di un defunto viene portato, dai parenti
più stretti o dai vicini di casa, gliu cunzuolu, ossia il pranzo: in passato, ciò avveniva per otto giorni, a mezzogiorno, poiché, per tutto questo periodo di lutto stretto, non si poteva cucinare né uscire di casa. Per un anno, inoltre, non si preparavano dolci in occasione delle feste:  provvedevano, a tanto, parenti e amici.
     In segno di lutto, per la perdita dei genitori, le donne vestivano di nero anche per tre anni; gli uomini portavano una cravatta nera o un bottone sul risvolto della giacca. Alcune vedove portavano il lutto per  il resto della vita.

Le malattie. Si riteneva, un tempo, che le malattie derivassero da forze sovrannaturali contrarie all’uomo, per cui si riteneva che molte infermità si potessero guarire con incanti e magie, secondo riti comuni a molti luoghi dell’Italia meridionale, ai quali facciamo un breve cenno.
Gliu malu  r’ capu (mal di testa) veniva curato sciogliendo il malocchio, cioè versando delle gocce di olio in un piattino e recitando una formula “magica”;
gli strangagliuni (orecchioni) mediante applicazione di mattoni caldi o gocce d’olio tiepido;
la vermnàra(verminazione) appendendo al collo una collana di spicchi d’aglio o faccendo bere dell’acqua contenente aglio tritato;
per evitare la formazione di puòrri (verruche), si raccomandava di non contare le stelle!
     
La leggenda di Monte Janara

     In Valle Agricola, ma pure in Prata, viene raccontata un’antica leggenda di
castelli legata ai Conti Pandone di Prata.
     E’ una storia di amore e di sangue che ci riporta con la mente indietro
nei secoli, in un mondo oggi irreale, completamente estraneo alla nostra
mentalità di uomini moderni, ma vera e significativa.
E’ la leggenda di Monte Janara.
     Era il tempo dei castelli, delle fortezze, dei tornei e il signore di Prata
governava la terra di Val di Prata come un piccolo re.
     Gli abitanti, oppressi dal potere del signore, che con i suoi soldati armati
spendeva la sua autorità per le contrade, conducevano una vita silenziosa,
fatta di patimenti e lavoro, di angherie e di soprusi, sotto l’ombra
turrita del castello.Tra di essi esisteva una certa piramide sociale : ai fortunati si contrapponevano coloro che dalla vita avevano ottenuto pochissimo e ai benestanti si opponevano coloro che vivevano nella miseria più totale.
     Le classi più agiate erano gli artigiani, i quali sapevano lavorare il
ferro, il legno, sapevano tessere e filare, oltre a manipolare il cuoio e a forgiare
il metallo. Liberi erano anche gli agricoltori. Soprattutto di questi ultimi il
feudatario aveva bisogno, in quanto producevano la ricchezza del feudo
stesso: infatti, sotto diverse forme, sia dirette che indirette, erano soggetti al
pagamento di varie tasse. Avevano la tassa per usare il forno ducale, quella
per passare sul ponte fatto costruire dal feudatario, una per raccogliere legna
dai boschi limitrofi, una per poter oltrepassare il Volturno e, addirittura, venne
istituita una contribuzione che ogni persona doveva pagare indipendentemente
da quanto già versato.
     In virtù di queste imposizioni, i poveri cittadini del Borgo di Prata avrebbero
vissuto molto meglio se fossero stati abbandonati al loro destino!
     A tutto questo bisognava aggiungere ruberie, prepotenze, soprusi, violenze,
devastazioni e, non ultimo, il privilegio o ius primae noctis da parte del
signore. Infatti, era in uso, in quel tempo, in tutti i feudi, non escluso quello di
Prata, che, in occasione delle nozze, i giovani fidanzati dovevano recarsi al
Castello per l’atto di consenso prima del matrimonio.
     Ovviamente, il feudatario, prima di essere un’istituzione civile e politica,oltrechè militare, è sicuramente un uomo e, quando questi vedeva una sposa particolarmente attraente, veniva colpito dalla sua bellezza e dall’armonia delle forme; a questo punto, avvalendosi del proprio diritto, ingiusto, la rubava allo sposo che,inerte, con rancore e odio profondo, andava via dal castello.
     Oggi diremmo : “ Roba da Medioevo! “, data la diversità così totale di una
simile situazione dalla realtà giornaliere; ed è proprio tale una storia che è
diventata leggenda alimentando le fantasie della gente per secoli, giungendo
fino a noi nella sua tetra bellezza.
     Un giorno, mentre scorreva lenta la vita quotidiana nel Borgo, accadde, come in ogni storia d’amore, l’imprevedibile.
     Due bellissimi giovani di Prata si recarono al cospetto del Signore per chiedere l’abituale permesso alle nozze. Lei era una giovane stupenda, bionda con gli occhi azzurri, profondi come il cielo che sovrasta le vette del Matese e così armoniosa e seducente che impressionò immediatamente il Signore che,
forte della sua autorità e di suoi privilegi medievali, la strappò letteralmente allo
sposo.
     Il fidanzato, con la veemenza e la forza tipica di un giovanotto di vent’anni, si slanciò contro il suo signore e con rabbia e disprezzo spense nel sangue le
volgari voglie del feudatario; alle sue grida di dolore accorsero le guardie da
tutti gli angoli del castello.
     Un rapido bacio d’addio alla ragazza che aveva assistito con orrore e trepidazione allo svolgersi fulmineo dell’azione e via di corsa sulle montagne, immediatamente seguito dalla milizia cittadina, a cercare un nascondiglio per scampare alla sicura morte.
     Purtroppo, il povero giovane venne raggiunto sulla vetta più alta della Terra di Valle; i soldati, con disumana ferocia, lo presero e, dopo averlo seviziato, lo
trucidarono barbaramente. Il sangue dell’infelice sposo aveva vendicato  quell’antico e nel contempo vile diritto del feudatario che era stato offeso.
     Da allora si racconta nel paese che lo spettro di quell’infelice giovane compare nelle notti di luna piena, invocando la sua sposa e l’irraggiungibile suo sogno d’amore.
     Il detto popolare ricorda questo triste e tragico fatto di sangue e di amore con queste parole:
“…Se vai di notte a Monte Janara
senti la voce di un grande spettro
che grida, saltando da una rupe all’altra,
e invocando vendetta,
contro il signore di Prata…”

    Il nome ianàra indicava (e indica ancora oggi)  una vecchia che aveva poteri malefici e che, di notte, era capace di attraversare muri e porte chiuse per fare del male alla gente, in particolare ai bambini.
Per neutralizzarla, si mettevano scope o spazzole dietro le porte, ritenendo che essa, obbligata a contarne tutte le setole, impiegasse tutta la notte in quest’attività finché, al sorgere del sole, fosse costretta  “alla ritirata” !
     L’unica occasione per catturarla si presentava nella notte di Natale. Dopo la Messa di Mezzanotte, un uomo rimaneva accanto alla porta della chiesa, indossando un pesante mantello nero sotto il quale nascondeva gli attrezzi del mietitore: gliu rampigliu (cintura) con una falce, i cannigli (pezzi di canna della lunghezza sufficiente a proteggere le dita durante il lavoro),     Tutti potevano uscire dalla chiesa, senza problemi,  tranne  la ianàra  che veniva, così, scoperta: sarà mai, qualcuna di esse,  caduta nella trappola? 

PERSONAGGI ILLUSTRI

     Tra le figure di spicco della cultura pratese, incontriamo, attraverso i secoli:
Giannantonio Campano (Cavelle di Galluccio,  1429 – Siena 1477), Vescovo e poeta, istitutore dei figli del nobile casato dei Pandone.
     La produzione letteraria del Campano fu molto apprezzata dai suoi contemporanei, primo fra tutti  Papa Pio II che lo portò con sé a Mantova.
Le sue opere sono conservate in preziosi Codici ornati da miniature di fattura finissima e si trovano presso la Biblioteca Apostolica Vaticana; l’Epistolario è conservato presso l’Archivio Segreto Vaticano.

Berardino Rota ( Napoli, 1509 -1575), cavaliere e poeta napoletano, signore di Prata, celebrò la sua presenza nel nostro paese dedicando al fiume Lete un epigramma in latino:
                                  
                                   “Ad Lhetem Flumen apud Pratam ditionis suae oppidum”
Salvete, o Lathices Lethaei, o f lumen amicum,
quod serpis vitreo saxa per  uda pede;
sive dedere olim lethae oblivia nomen,
sive dedit lethum meta, quiesque mali.
Sit faustum, felixque: tamen quia nomen ab ipsa est
Laetitia, letum nome net omen eris

Mentre Berardino si dedicava interamente alle lettere e intratteneva vivaci rapporti con i maggiori autori del suo tempo, e non solo a Napoli, gli altri membri della famiglia continuavano a combattere in tutte quelle situazioni che si presentavano avverse alla sovranità, ricevendo privilegi tra cui quello concesso nel 1536 da Carlo V, di porre sullo stemma di famiglia ( una ruota d’oro in campo azzurro)  l’aquila imperiale coronata, con le ali distese che abbracciano lo scudo delle armi dei Rota.

Gabriele Sabatino Pistocco (Prata Sannita, 1884 – 1967), pittore e musicista compositore.

Benedetto Pistocco (Prata Sannita, 1935 – Monfalcone  1984) poeta.
Figlio di contadini, fu costretto ad interrompere gli studi per dedicarsi al lavoro.         Dopo oltre vent’anni riprese l’attività letteraria, sua antica passione, e pubblicò quattro raccolte di liriche, racconti, poesie e saggi. Più volte premiato in concorsi letterari, si dedicò attivamente anche alla poesia in vernacolo, usando il dialetto pratese, e conseguendo brillanti affermazioni.

                         Primavèra      (da “Canti re Lete”)
Mò ché la primavèra
è già turnata,
i’ ne verèsse l’ora
re ì a veré la néve
chè se squaglia
e ‘nu ramu che ‘nguiglia,
‘na campana che sòna,
‘n’ata ché gli risponne
ra luntanu,
la campagna chè rire
e l’ariénu ché addora
pe n’copp’a lle muntagne,
mancu fosse ‘nu sciore
I’ ne véresse l’ora…

 Boiano Raffaele (Prata Sannita, 1915 – 1986) poeta .
La sua nobile famiglia era originaria di Gallo Matese, ove ancora oggi possiede un palazzo costruito alla fine del ‘700.
Dopo aver svolto lunghi anni di lavoro nella città di Caserta, raggiunta l’età della pensione si dedicò, con grande passione, alla poesia.
Socio benemerito dell’Associazione Arte e Cultura di Ferrara, ricevette l’Attestato di Merito ed una targa ricordo per le poesie “Meriggio di maggio a Prata Sannita” e “Le torri di Prata”, definite “…l’espressione di palpitanti sentimenti interiori e la sfida al mondo attuale, saturo di impurità…Ricordi, delusioni e rimpianti vengono presentati in maniera ineguagliabile…”
 
 Le torri di Prata
Sulle Portelle dove tira il forte vento,
le torri sembrano cadere ed
eternamente hanno l’edera attaccata;
dal corto gambo di verde carica
è la foglia.
Tu non possiedi campane né orologi,
negli anni remoti dall’alto dominavi.
Il passero solitario su te ci fa il nido,
nelle tue grandi bocche
i pipistrelli salgono e scendono,
nelle interne pareti restano di giorno attaccati;
sembra l’inferno a che dall’alto
guarda giù,
pur tu stai su una roccia e non crolli
mai,
in giro sulle cartoline vai,
porti all’emigrante il ricordo
della sua Prata.

padre Girolamo Russo (Cimitile, 1885 – Saviano 1970), maestro nello studentato istituito durante la Prima Guerra Mondiale nel convento dei Servi di Maria; è in corso la sua causa di beatificazione.